Avvocato Risarcimento Danni Embolia
Il danno cagionato dalla perdita di un prossimo congiunto va al di là del mero dolore che la morte in sé provoca nei famigliari, concretandosi nel vuoto costituito dal non poter più godere della presenza di chi è venuto meno e nell’irrimediabile distruzione di una vita basata sulla condivisione, sull’affettività e sulla quotidianità del rapporto.
Il medico che ha commesso l’errore può essere condannato per omicidio colposo, la cui pena ai sensi dell’art. 589 c.p. va da sei mesi ai cinque anni, nonché al risarcimento del danno, nel caso di specie quantificato in un milione di euro circa.
Nell’arco di una vita non ci si può sottrarre alle cure mediche, ai “tagliandi” che il nostro corpo ci richiede e alla “manutenzione” indispensabile per poter vivere serenamente il più a lungo possibile.
Alle volte non si tratta di banali interventi, di semplici cure farmacologiche che il medico ci somministra al fine di fronteggiare patologie comuni; può capitare che la nostra vita sia messa in pericolo da malattie difficilmente curabili, per far fronte alle quali non è più sufficiente l’intervento medico di routine, ma è indispensabile che vi sia un’alta professionalità in grado di restituirci il tempo che la malattia intende sottrarci.
L’attività del dottore non è un lavoro, non è una professione, ma una vera e propria vocazione.
Il medico non può avere il lusso di sentire la stanchezza, di essere distratto dai propri problemi personali, di distogliere anche solo per un attimo l’attenzione dalla sua attività. C’è la vita di un altro essere umano nelle sue mani, di qualcuno che ha a casa una famiglia, che ha dei bimbi da crescere, che deve tornare a lavoro per pagare le rate del mutuo e assicurare un tetto ai propri cari; c’è la storia di qualcuno che coltiva sogni, speranze, che ha progetti per il futuro e piani da portare avanti.
È di tutto questo che il dottore ha la responsabilità, è da lui che dipende il futuro di una persona e di coloro che le sono accanto.
Eppure, sebbene tutti noi quando ci rechiamo da professionisti che hanno scelto una tale responsabilità ci affidiamo completamente nella convinzione che faranno del loro meglio per assicurarci il miglior risultato possibile, il medico è un uomo. È una persona con le sue frustrazioni, le sue sofferenze, i suoi dubbi e le sue incertezze e a volte, anche se può rappresentare un episodio isolato nel corso di una carriera, il medico può sbagliare.
L’errore talvolta è fatale. Interrompe una vita, i sogni, le speranze, gli affetti, i progetti.
Ci si reca in ospedale con il pensiero di tornare a casa più forti di prima e invece i famigliari sono costretti a riportare la sola borsa con gli effetti personali, con il pigiama, lo spazzolino, le ciabatte che la persona che amiamo aveva preparato prima di lasciare per sempre la sua abitazione.
Si viene assaliti da un vuoto incolmabile, dalla disperazione e, subito dopo, dalla rabbia. La rabbia che deriva dalla consapevolezza che un solo momento di distrazione ha interrotto la vita di chi amavamo. La rabbia che porta a volere giustizia, nelle aule di tribunale, con una condanna penale e, anche, con un risarcimento civile.
Si incominciano battaglie legali lunghissime, che potremo vincere, che faranno eventualmente anche giustizia, ma che non potranno riportare indietro la vita di chi ci ha lasciato e non potranno restituire un minimo di pace al medico.
In fondo, quando accade questo, sono molte le vite rovinate e tra queste vi è senz’altro quella del dottore che, finché vivrà, dovrà fare i conti con il rimorso e con la propria coscienza, difficilmente ritrovando la pace.
Come avvenuto a Massa Carrara, in cui la vita di un ragazzo è stata interrotta durante un intervento cardiochirurgico, nel corso del quale si era verificata un’embolia fatale, dal quale il giovane non si è più risvegliato. Nello specifico tale embolia era stata cagionata dall’errato utilizzo del macchinario per la circolazione extracorporea, indispensabile quando occorra procedere ad interventi a cuore aperto, all’interno del quale si era creata una bolla poi trasferita nel sistema cardiovascolare del paziente.
Risarcimento errore circolazione extracorporea
Per tali fatti il medico a cui l’errore mortale è stato imputato, ossia il perfusionista responsabile della circolazione extracorporea durante lo svolgimento dell’operazione, è stato processato in sede penale per omicidio colposo e, sin da subito, ha patteggiato la pena da irrogare evitando che si celebrasse il dibattimento.
I famigliari della vittima non si sono però fermati, con la volontà di vedere fatta giustizia, hanno incardinato un’azione civile volta al risarcimento del danno, sia nei confronti del medico che della Asl e della Fondazione M., a cui era affidata la gestione del reparto cardiochirurgico.
Di tale processo si è celebrato ad oggi (2016) il solo primo grado di giudizio, conclusosi con la vittoria degli attori, ossia dei danneggiati, che hanno ottenuto per il momento un risarcimento complessivo di euro 1.290.000,64, da dividersi ciascuno dei famigliari per le proprie spettanze, oltre al pagamento delle spese processuali e dei compensi dei legali.
Condannata alla liquidazione dei superiori importi è stata l’assicurazione della Asl n. 1 di Massa Carrara, attesa la precedente stipula di una polizza assicurativa avente ad oggetto i danni cagionati anche dal personale medico e paramedico.
L'azione legale per i danni morali
Il risarcimento del danno è stato richiesto dalla moglie della vittima, in proprio e nella qualità di esercente la responsabilità genitoriale sulla figlia minore, dai genitori del defunto, dal fratello e dai nonni, nonché dalla bisnonna.
Questi, difesi dallo stesso avvocato, chiedevano che il giudice riconoscesse le gravi negligenze nell’operato dell’equipe medica che aveva eseguito l’intervento cardiochirurgico il 12 marzo 2008, data della morte del loro caro e, in particolare, quelle del tecnico perfusionista il quale, in ragione di un errore non scusabile, aveva direttamente cagionato l’evento mortale.
Gli attori chiedevano altresì la condanna della Asl n. 1 di Massa Carrara e della Fondazione T.G.M., in solido tra loro, al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti, oltre interessi e rivalutazione.
Si costituivano in giudizio le controparti, che rassegnavano le seguenti conclusioni: il tecnico perfusionista chiedeva il rigetto delle domande attoree, respingendo ogni addebito di responsabilità per quanto accaduto al giovane uomo; anche la Fondazione T.G.M. sosteneva l’infondatezza dell’accusa e chiedendo che in ogni caso il giudice autorizzasse la chiamata in causa della Compagnia assicurativa, allo scopo di esercitare la garanzia derivante dalla stipula di un contratto di assicurazione per la responsabilità civile; infine, l’ultima parte convenuta in giudizio, la Asl, domandava anch’essa il rigetto della richiesta risarcitoria, sostenendo che nulla poteva essere da lei preteso in quanto la gestione della struttura ove il fatto si era verificato era stata già precedentemente affidata alla CNR – IFC – CREAS, di cui la Fondazione citata è emanazione, indi per cui solo quest’ultima avrebbe dovuto rispondere di eventuali responsabilità.
Intervenuta in un secondo momento, a seguito dell’autorizzazione alla chiamata concessa dal giudice, anche la Compagnia assicurativa concludeva per il rigetto delle domande formulate dagli attori, contestate sia per ciò che concerne l’an, ossia la fondatezza storica, sia riguardo al quantum, ossia al dato quantitativo della pretesa risarcitoria avanzata.
La compagnia inoltre sosteneva che, anche laddove fosse stata riconosciuta una responsabilità in capo alle altre parti convenute, la polizza stipulata non avrebbe comunque coperto quanto dovuto, poiché il caso di specie non rientrava nel novero delle ipotesi assicurate.
Sentenza di condanna al risarcimento dei parenti
Nel pronunciare la sentenza di primo grado, il Tribunale di Massa ha anzitutto provveduto all’inquadramento della fattispecie all’individuazione della normativa applicabile.
In particolare, va premesso che il risarcimento dovuto dalla struttura sanitaria e dal medico, ad avviso del giudicante, ha natura contrattuale, derivando questo, per quanto concerne la struttura, dal contratto atipico di spedalità concluso tra il paziente e l’azienda sanitaria (che accetta di fornire il ricovero e le attrezzature necessarie alla terapia o all’intervento da seguire, rispondendo anche per i danni eventualmente cagionati dal personale di cui si avvale) e, per ciò che concerne il medico, dal contatto sociale con il paziente, fatto di per sé idoneo a produrre un’obbligazione.
Chiarito ciò, e individuato l’onere della prova dell’inadempimento in capo al paziente, il giudice ha quindi analizzato l’evento, con l’ausilio per consulenze tecniche espletate, al fine di comprenderne l’esatta dinamica e identificare le precise responsabilità ove sussistenti.
All’uopo di fondamentale importanza sono risultati gli accertamenti tecnici, non solo compiuti nel corso nel corso del processo civile, ma anche quelli già svolti durante le indagini penali, grazie ai quali il giudice ha potuto formare il proprio libero convincimento.
Nello specifico, da questi emergeva come il decesso fosse intervenuto a causa della formazione di bolle gassose nel sistema circolatorio del paziente, le quali, derivate dal macchinario per la circolazione extracorporea, finivano nel sangue dell’uomo sottoposto ad intervento, cagionando un’embolia gassosa e quindi la morte.
Già in sede di investigazioni penali era stata analizzata la strumentazione utilizzata quel giorno, simulando insieme al perfusionista indagato lo svolgimento di un’operazione uguale a quella eseguita sul paziente tragicamente deceduto. Ebbene, da tale sperimentazione, pur con la variazione delle parti monouso del macchinario, è emerso il corretto funzionamento di tutta la strumentazione.
Anche in sede civile, il ctu incaricato ha concluso la propria relazione affermando che la probabilità che fossero presenti difetti tecnici tali da causare o concausare il sinistro occorso era prossima allo zero.
Le superiori risultanze tecniche hanno quindi chiarito che la morte dell’uomo non poteva imputarsi ad un malfunzionamento del macchinario per la circolazione extracorporea, essendo stata l’embolia gassosa causata da un errore nell’utilizzo del predetto macchinario da parte del tecnico.
Quest’ultimo ha quindi contravvenuto agli obblighi di diligenza professionale imposti dagli articoli 1176 comma 2 e 2236 c.c., i quali dispongono, il primo, che nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale l diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata, il secondo, che se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà il prestatore d’opera risponde dei danni solo in caso di dolo o colpa grave.
Al perfusionista era richiesta una diligenza maggiore rispetto a quella del buon padre di famiglia, in linea con le sue particolari competenze tecniche, attesa l’enorme rischiosità del suo lavoro.
Nonostante ciò, tuttavia, egli si è reso responsabile di negligenza e imperizia, non dando nel corso del giudizio alcuna prova di aver agito con il massimo scrupolo possibile.
Per tali ragioni, il giudice lo ha condannato al risarcimento del danno.
Il Tribunale di Massa ha inoltre accolto quanto sostenuto dalla Asl in ordine al suo difetto di legittimazione passiva, in quanto essendo la Fondazione T.G.M. responsabile della gestione del reparto cardiochirurgico, è a tale persona giuridica che va imputata la responsabilità contrattuale.
Da ultimo, sono state rigettate le argomentazioni della compagnia assicurativa volte a sottrarsi al pagamento, avendo il giudice stabilito che il sinistro occorso rientrasse pienamente in quelli coperti dalla polizza stipulata, indi per cui la compagnia è stata condannata a mallevare i convenuti dal pagamento di quanto dovuto, dovendo ella procedere alla liquidazione delle somme dal giudice determinate, sia a titolo di danno non patrimoniale (in cui rientrano le voci descrittive del danno biologico, morale ed esistenziale), sia a titolo di danno patrimoniale, ricomprendente il danno emergente (ossia le spese sostenute dagli attori) e il lucro cessante (ossia il mancato guadagno della vittima calcolato tenendo conto dell’età e dei profitti lavorativi).
In definitiva, utilizzando le tabelle di Milano per la quantificazione del danno non patrimoniale, che tengono conto di diversi fattori, questi sono stati così quantificati: euro 250.000 in favore del coniuge del defunto, euro 250.000 in favore della figlia, euro 200.000 in favore della madre, la stessa cifra in favore del padre, euro 60.000 in favore del fratello non convivente, euro 50.000 in favore della nonna, euro 50.000 in favore degli eredi del nonno nel frattempo deceduto e, infine, euro 20.000 in favore della bisnonna.
Per ciò che concerne i danni patrimoniali, questi sono stati quantificati in euro 10.114,64 per le spese funebri sostenute, nonché euro 100.000 in favore del coniuge ed euro 100.000 in favore della figlia a titolo di lucro cessante per i mancati guadagni futuri dell’uomo.
Riflessioni.
I sinistri mortali, ossia quegli episodi che, per colpa o dolo di un terza persona, cagionano la morte di qualcuno danno spesso luogo a risarcimenti milionari, che cambiano la vita dei prossimi congiunti.
Abbandonando per un attimo le facili considerazioni in merito alla disperazione dei famigliari, al loro dolore che mai potrà essere compensato da una somma di denaro, qualunque essa sia, è però altrettanto vero che in alcune situazioni, non infrequenti nelle aule dei tribunali, la morte di un prossimo congiunto che non si frequentava da anni arriva come un dono inatteso a sistemare le difficoltà economiche della propria vita.
Benchè non sia la sede per valutazioni morali, men che mai etiche, viene da chiedersi se sia giusto ritenere il danno non patrimoniale sussistente in virtù della sola esistenza di un rapporto parentale.
Che ne è di chi, magari non avendo sugellato il rapporto con il vincolo coniugale, ha condiviso giorno dopo giorno la quotidianità della persona defunta?
Questa dovrà provare di aver avuto un rapporto con la vittima e di aver fatto parte della sua vita, dando prova del dolore e della sofferenza connessi a tale perdita, mentre al fratello che magari non si frequentava da anni basterà dare prova del rapporto parentale esistente.
È evidente che le imperfezioni della nostra società civile si riflettono inevitabilmente nel nostro sistema giuridico, chiamato a dare interpretazioni di volta in volta correttive di una volontà legislativa non sempre attuale.
Sentenza di della Cassazione Roma
Sugli errori medici purtroppo i giudici hanno avuto più volte l’occasione di pronunciarsi. A volte il ricorso all’organo giudicante è fondato, altre volte è solo pretestuoso, diretto ad ottenere un risarcimento non fondato su dati oggettivi, certi e scientifici.
Tra le pronunce in materia si segnala Cassazione Civile – Sezione Terza – Sentenza n. 6093 del 12 marzo 2013, con la quale i giudici della Suprema Corte hanno specificato come l’eventuale sussistenza di una patologia rara non scusa il medico per l’errata o omessa diagnosi.
Benchè i medici interessati avessero addotto quale scusante dell’errata terapia prescritta l’elevata difficoltà della diagnosi, attesa la presenza di una malattia statisticamente rara, la Corte ne ha comunque affermato la responsabilità per i danni cagionati alla paziente, non rilevando la complessità tecnica della diagnosi.
La sentenza: Tribunale di Massa, Sez. unica civile, 26 marzo 2015, R.G. 763/2012.