Avvocato Risarcimento danno errore parto - cordone ombelicale

L’equipe medica che provvede ad occuparsi del parto di una paziente è obbligata a risarcire il danno quando, per mera imperizia o negligenza, non provveda al necessario costante monitoraggio del feto, non avvedendosi che questo è in sofferenza a causa del soffocamento cagionato dal cordone ombelicale e provochi così nel nascituro una sindrome post asfittica, convulsioni, infezione e ipereccitabilità, con invalidità del 100 %.

Oltre al dovuto risarcimento civile, qualora non si sia attenuto correttamente ai protocolli, il medico potrà essere perseguito anche penalmente per il reato di lesioni gravissime di cui all’art. 583 c.p., per il quale la pena prevista va dai sei ai dodici anni di reclusione.

In sede civile i danni patrimoniali e non patrimoniali sono stati quantificati in più di due milioni di euro.

Forti dolori addominali

Probabilmente uno dei momenti più belli della vita di una coppia il cui sogno sia quello di creare una famiglia è quello in cui si scopre di aspettare un bambino.

È un momento in cui si vorrebbe che il futuro arrivasse un po’ più in fretta, per avere tra le braccia un batuffolo che cambierà per sempre le vite di entrambi. Si iniziano a frequentare i negozi, ad acquistare tutine e pagliaccetti, a scegliere il colore della cameretta cercando di individuare quale può essere il fasciatoio più carino, la carrozzina e il passeggino più comodi. Ci si prepara così, pieni di aspettative e frenesia all’arrivo del nuovo membro della famiglia.

La mamma inizia a sentir crescere una nuova vita dentro di sé, a fantasticare sul colore dei capelli, sul colore degli occhi, sui lineamenti che avrà quell’esserino che sente muoversi.

La gravidanza è un’attesa febbrile che coinvolge tutto il nucleo famigliare, compresi nonni, zii, ma anche gli amici più stretti.

Non sempre però tutto va come dovrebbe.

Può accadere che, terminata la gestazione, quando con gioia quasi frenetica si prepara la borsa per l’ospedale ove ci si reca ai primi disturbi percepiti, qualcosa vada storto e tutte quelle sensazioni di intrepida attesa e di incredula felicità nel pensare che al ritorno a casa vi sarà anche qualcun altro si tramutano improvvisamente in paura, angoscia, disperazione.

Il futuro non è più rosa, non ci sono più felici gite al parco, giornate al mare costruendo castelli di sabbia, giochi nei parchi acquatici o nei parchi divertimento; ad un tratto ci sono soltanto giornate ad accudire il proprio figlio, nella disperata consapevolezza che non sarà mai in grado di farlo da solo.

Questo il drammatico quadro presentatosi dinanzi ad una famiglia romana, la quale, dopo aver vissuto una tranquilla e sana gestazione, alle prime contrazioni si recava in ospedale per veder nascere la sua prima bambina.

In un primo momento, madre e padre venivano rimandati a casa, come spesso accade in quelle situazioni in cui ci si allarma alla prima contrazione ma non è ancora arrivato il momento di dare alla luce il proprio figlio.

Successivamente, dopo poche ore, visto il protrarsi delle contrazioni, decidevano di recarsi nuovamente presso l’ospedale Fatebenefratelli, ove venivano riscontrati stavolta un’attività contrattile sporadica e liquido amniotico ai limiti inferiori, con picchi di frequenza del battito cardiaco del feto; i medici in tal caso reputavano necessario un successivo controllo dopo 24 ore.

Rimandata a casa per la seconda volta, la donna accusava dei forti dolori addominali che la spingevano a recarsi presso il pronto soccorso dell’ospedale, il quale nuovamente decideva di rimandarla via, invitandola a tornare nelle 24 ore successive.

Se non che, esausta ed esasperata, la mamma, in preda a fortissimi dolori addominali, si recava nuovamente presso il pronto soccorso, che stavolta disponeva l’immediato ricovero, vista la rottura delle acque, senza tuttavia trasportare la donna in sala parto e lasciandola in piedi in attesa nei locali del Blocco Parto dell’ospedale.

Solo dopo più di un’ora il personale sanitario si decideva a trasportarla in sala parto, dove, incuranti delle richieste della paziente circa la volontà di far ricorso all’anestesia, constatavano che i battiti cardiaci della nascitura diminuivano. Nonostante ciò, non veniva adoperato alcun presidio diagnostico o terapeutico, limitandosi il personale ad attendere l’esito del parto naturale, non avvedendosi a quel punto che il parto naturale non sarebbe potuto avvenire viste le contrazioni estremamente deboli.

Chiarita l’impossibilità di procedere con il parto naturale solo qualche tempo dopo, i medici decidevano di eseguire l’intervento con una ventosa, allo scopo di favorire l’estrazione del feto, che a quel punto risultava essere totalmente atonico a causa di un doppio giro di cordone attorno al collo.

La bambina, venuta alla luce nel modo peggiore, veniva riconosciuta come portatrice di handicap in regime di gravità con difficoltà a svolgere i compiti e le funzioni proprie della sua età, in ragione del disturbo dello sviluppo neuropsicomotorio secondario ad encefalopatia ipossico-ischemica perinatale, causata dalle complicazioni del parto, con invalidità al 100%.

Nessuno di noi può avere il controllo su ciò che la natura ci riserva; ogni volta che un bambino viene concepito potrebbe andare storto qualcosa, potrebbe nascere una persona non completamente sana. Ma in questo caso forse lo accetteremmo.

Ciò che invece non può essere accettato è il fatto che una bambina perfettamente sana, con un roseo futuro davanti, sia stata costretta all’invalidità per tutto il corso della sua vita, costretta a perdersi il meglio di quello che il futuro poteva offrirle, a causa di chi, forse troppo impegnato o forse solo poco competente, ha perso inutilmente tempo per far sì che venisse al mondo.

Richiesta di Risarcimento presso Tribunale di Roma

Lo shock iniziale da parte dei genitori e la frantumazione in pochi attimi di tutti i loro sogni lasciavano poi il posto alla rabbia e al rancore nei confronti dei medici presenti, in particolare due dottoresse che, assieme alla struttura ospedaliera, venivano citate in giudizio innanzi al Tribunale ordinario di Roma, per rispondere delle loro mancanze professionali, della loro negligenza e dell’imperizia che, non solo ha rovinato la vita di una persona, ma anche di riflesso quella dei genitori e degli altri famigliari.

Al giudizio si univano poi le compagnie assicurative, chiamate in causa dalle dottoresse e dall’ospedale Fatebenefratelli per essere mallevati in caso di riconoscimento di una responsabilità civile.

Si univa altresì l’Università Tor Vergata, presso cui una delle dottoresse lavorava, per essere poi distaccata al Fatebenefratelli in virtù di convenzione stipulata tra gli istituti.

Gli attori, parti in causa sia in proprio che nella qualità di esercenti la responsabilità genitoriale sulla figlia, chiedevano che tutti i convenuti venissero dichiarati responsabili dei nocumenti sofferti e condannati, in via solidale o alternativa, al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali, nella misura da loro quantificata in euro 3.459.262,29, ovvero nella diversa maggiore o minore somma ritenuta di giustizia.

La prima delle due dottoresse presenti si costituiva in giudizio chiedendo invece il rigetto delle istanze attoree e segnatamente rilevando di aver agito correttamente durante il parto, essendo stati i danni riportati dalla neonata addebitabili ad un evento imprevedibile.

Anzi, la dottoressa evidenziava la particolare complessità della tecnica eseguita per far nascere la piccola e ribadiva che, sino al momento dell’intervento, non vi erano ragioni evidenti per procedere al parto cesareo.

Si costituiva altresì la seconda dottoressa presente all’intervento, la quale diversamente sosteneva di non poter essere coinvolta nel giudizio in quanto ella si trovava, nel periodo dei fatti, presso la struttura ospedaliera in qualità di specializzanda; non aveva di conseguenza alcun potere di gestione in autonomia del caso clinico.

L’ospedale Fatebenefratelli sosteneva la correttezza dell’operato dello staff medico nel corso delle operazioni del parto, evidenziando altresì la totale assenza di nesso causale tra il parto e i danni cagionati alla bambina e contestando inoltre la richiesta risarcitoria sotto il profilo quantitativo.

Come detto, anche le compagnie assicurative si univano al giudizio, sia quella delle dottoresse che quella della struttura, sostanzialmente aderendo alle tesi già sostenute dagli altri convenuti di esonero da responsabilità. L’assicurazione dell’ospedale sosteneva inoltre che, anche in caso di condanna, nulla sarebbe stato da lei dovuto in quanto il contratto assicurativo copriva solo i danni cagionati nell’arco temporale della vigenza del contratto il cui risarcimento fosse stato richiesto nel medesimo periodo.

Documentazione Clinica 

Anzitutto va detto che, in processi di questo tenore, indispensabile risulta la documentazione clinica e le consulenze tecniche operate dalle parti e disposte dal giudice, tant’è che anche in questo procedimento veniva immediatamente disposta CTU ai fini istruttori, così da consentire la ricostruzione dei fatti e individuare eventuali violazioni dei protocolli.

In questo caso il consulente tecnico d’ufficio, ripercorrendo tutti le fasi che avevano condotto all’intervento di estrazione del feto mediante ventosa, in conformità alla documentazione medica versata in atti da parte attrice, rilevava che il personale medico aveva agito secondo i protocolli.

E infatti, egli sottolineava che ogniqualvolta la donna si era recata in ospedale in seguito a forti dolori addominali, questa era stata correttamente monitorata e il feto risultava sempre reattivo, ragion per cui, vista anche l’assenza di patologie pregresse della gestante, non si palesavano particolari motivi di urgente intervento chirurgico.

Il consulente ribadiva altresì la correttezza della scelta di operare la spremitura alla Kristeller, ossia mediante l’ausilio di ventosa, al momento in cui il feto risultava in sofferenza e il parto naturale si rivelava oramai ipotesi impraticabile.

Tuttavia, sebbene le risultanze della CTU fossero chiare, in totale favore dei convenuti, il giudice in modo non affatto scontato disattendeva completamente tali esiti, aderendo in toto alle domande dei genitori.

Il Tribunale dichiarava invero assolto l’onere della prova gravante sugli attori, ossia quello di dimostrare i danni sofferti e la fonte negoziale, mentre viceversa i convenuti non raggiungevano alcuna prova in ordine al loro corretto adempimento.

Anzi, il giudice dava atto dell’incomprensibilità delle cartelle cliniche depositate dalle parti convenute e riconosceva una responsabilità per la loro non corretta compilazione, indi per cui, chiarito che non è il paziente che può essere danneggiato dalla poca chiarezza di un documento la cui compilazione non spetta a lui, dichiarava non assolto l’onere probatorio relativo al corretto espletamento delle procedure cliniche e, attesa la regola civilistica relativa al nesso causale del “più probabile che non”, evidenziava il diretto collegamento tra l’operato medico e i danni occorsi.

Ciò detto, individuata quindi la responsabilità del personale medico e della struttura ospedaliera, il giudice procedeva alla sua qualificazione e alla quantificazione del danno.

In primo luogo, constatava la natura contrattuale della responsabilità del medico, che risponde ai sensi degli artt. 1176 secondo comma e 2236 cc. Si escludeva ogni responsabilità della dottoressa specializzanda, vista l’impossibilità per lei di incidere sulle decisioni adottate dallo staff.


Il danno veniva così quantificato: euro 1.175.397,15 per danno biologico, secondo le tabelle del Tribunale di Roma per un’invalidità pari al 100%, ulteriori euro 300.000,00 a titolo di danno non patrimoniale relativamente alla voce del danno morale, per il danno morale sofferto dai genitori euro 150.000,00 ciascuno; per i danni patrimoniali, euro 346.150,00.


Dal totale veniva decurtato l’importo di euro 550.000,00 già percepito in virtù dell’accordo transattivo con la compagnia assicurativa della dottoressa, mentre veniva esonerata dal pagamento l’assicurazione della struttura, la quale, come sostenuto, copriva soltanto i danni cagionati nell’arco temporale di vigenza del contratto.

Riflessioni

Più di due milioni di euro. La maggior parte di noi non li guadagnerà nel corso di una vita. È una cifra enorme, quasi irraggiungibile, che all’improvviso diventa piccolissima, tanto da poter entrare tutta in un portafogli, quando si pensa a ciò che non si avrà, alla circostanza che questo è il prezzo per una vita portata via, non con la morte fisica ma con la sottrazione delle possibilità infinite che ciascuno ha quando nasce. E allora cosa sono un milione, due milioni, tre milioni. Non sono altro che un cerotto su una ferita che porterà alla morte.

Sentenze rilevanti

Purtroppo, anche nei casi meno drammatici, le vicende relative a invalidità cagionata dal personale medico e paramedico durante il parto sono innumerevoli.

Di un diverso episodio è stata invero chiamata a pronunciarsi la Corte di Cassazione (Cass. Civ., sez. III, sent. 16/02/2012, n. 2228); si trattava della storia di un bambino che aveva riportato una lesione del plesso nervoso branchiale, che provocava la paralisi di un braccio, a causa di un errore dei sanitari nell’estrazione del nascituro.

In un primo momento la Corte d’appello aveva negato il diritto del bambino e dei genitori al risarcimento, ma la Suprema Corte, ribaltando tali affermazioni ha così disposto: “Al genitore di persona che abbia subito la paralisi ostetrica del braccio destro all’esito di errato intervento in sede di parto spetta il risarcimento del danno non patrimoniale sofferto in conseguenza di tale evento, dovendo ai fini della liquidazione del relativo ristoro tenersi in considerazione la sofferenza (o patema d’animo) anche sotto il profilo della sua degenerazione in obiettivi profili relazionali. La prova di tale danno può essere data anche con presunzioni”.

La sentenza: Trib. ord. Di Roma, sez. XIII civile, sentenza 07/01/2015, R.G. 56975/2008.