Risarcimento del Danno da Infezione per Trasfusione
L'infezione derivante dall'errore del personale medico in fase di trasfusione è risarcita in base alla gravità della malattia contratta.
Ad esempio, la struttura ospedaliera è responsabile dei danni causati dall’infermiera che, utilizzando per l’infusione del mezzo di contrasto dei guanti già usati, provochi una rottura del vaso sanguigno e la contrazione da parte del paziente dell’epatite C.
Non vi è rilevanza penale, ma il risarcimento civile nel caso di specie veniva quantificato in complessivi euro 41.677,00.
La strada che dalla diagnosi di una malattia conduce alla guarigione, o almeno ad una stabile convivenza con essa, spesso si rivela lunga e accidentata.
Quando si incomincia ad avere a che fare con medici, terapie, infermieri, interventi chirurgici, medicine, è sempre possibile che accada qualche imprevisto, che alla patologia principale si uniscano complicazioni della terapia che si sta seguendo, effetti collaterali o anche errori del personale sanitario che aggravano ancor di più il nostro stato clinico. Specie se il quadro di salute è già abbastanza compromesso dalla presenza di un linfoma non Hodgkin, che ha già provveduto a compromettere in modo grave il sistema immunitario.
Questa è la storia di un uomo che dal 2002 risultava affetto dalla superiore tipologia di tumore, che in Italia affligge circa il 3% della popolazione, ed incominciava a seguire diversi cicli di chemioterapia, cercando di tenere sotto controllo la malattia e, come tutti coloro che sono colpiti da neoplasie, si sottoponeva periodicamente a controlli e verifiche al fine di monitorare lo stato del tumore.
Ma come si suol dire, piove sempre sul bagnato.
Allo stato di salute già debilitato dell’uomo, si aggiungeva un’ulteriore patologia, contratta in ragione di un errore dell’infermiera in occasione del controllo TC con mezzo di contrasto, eseguito durante il ricovero presso l’ospedale di Firenze intervenuto tra il 29 e il 31 marzo 2006.
Nel corso di tale esame, infatti, allorchè si apprestava ad eseguire l’infusione del mezzo di contrasto, l’infermiera provocava la discontinuazione del vaso sanguigno, ossia la rottura della vena, con fuoriuscita di sangue e nel tamponare l’emorragia utilizzava dei guanti che probabilmente erano già stati utilizzati per altri pazienti.
Così facendo, ella provocava la contrazione da parte del paziente del virus HCV, responsabile dell’epatite C.
Non solo quindi l’uomo avrebbe dovuto combattere con il proprio linfoma, ma si aggiungeva ad esso una nuova grave patologia, che rischiava di compromettere le funzionalità epatiche.
Ovviamente tale storia finiva in tribunale, ove il paziente chiedeva che venissero riconosciute le sue ragioni e condannata la struttura ospedaliera al risarcimento del danno.
Del resto, quando si ha a che fare con la salute delle persone, specialmente se si tratta di persone già debilitate, non possono essere tollerate certe negligenze o distrazioni, poiché in tal caso sarebbe forse più opportuno dedicarsi a lavori o professioni meno incidenti sulla vita altrui.
Richiesta di Risarcimento per la contrazione dell'infezione
L’azione veniva esercitata innanzi al Tribunale, ove era convenuta in giudizio la struttura ospedaliera chiamata a rispondere per l’operato del proprio personale infermieristico.
Successivamente, si univano al procedimento anche due compagnie assicurative, le quali venivano chiamate in causa previa autorizzazione del giudice dalla parte convenuta, con lo scopo di mallevare quest’ultima nel caso in cui fosse stata riconosciuta una qualche responsabilità civile.
L’attore sosteneva la sussistenza di un nesso causale diretto tra l’operato dell’infermiera che gli aveva causato la rottura della vena con conseguente tamponamento della ferita con guanti già usati e la contrazione da parte sua del virus HCV.
L’uomo invero evidenziava come prima del marzo 2006 non avesse mai presentato alcuna sofferenza epatocellulare né markers epatici; solo nel successivo controllo eseguito nel luglio dello stesso anno gli venivano riscontrati i valori di ipertransaminasemia spiccata, iperbilirubinemia con aumento della gamma GT e LHD, nonché una PCR di 1.990.000, tali da far diagnosticare la patologia dell’epatite C.
Per tali ragioni, il paziente chiedeva pertanto il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subìti, da lui quantificati in euro 85.920,00, che la struttura ospedaliera avrebbe dovuto liquidare in virtù del dettato dell’articolo 1218 c.c., disciplinante la responsabilità contrattuale.
Si costituiva in giudizio l’ospedale, il quale contestava la fondatezza della domanda attorea in quanto non sorretta da elementi concreti. Il convenuto sottolineava la totale assenza di nesso causale tra danno ed evento, peraltro ribadendo come l’infermiera interessata avesse sempre negato l’utilizzo di guanti usati per il tamponamento dell’emorragia del paziente.
In più, veniva posto all’attenzione del giudice il fatto che, per poter procedere all’infusione del liquido di contrasto, si utilizza un kit monouso che impedisce il reflusso e conseguentemente pone al riparo da ogni contaminazione da contatto.
Si chiedeva quindi il rigetto di ogni pretesa risarcitoria.
Infine, si univano al giudizio come detto le compagnie assicurative, le quali contestavano nel merito le istanze del paziente e, in subordine, chiedevano che anche in caso di condanna si tenesse conto della franchigia prevista dai contratti assicurativi.
Errore dell'infermiera - Contagio epatite c
Il Tribunale riconosceva la sussistenza di un nesso eziologico tra la condotta dell’infermiera e la contrazione dell’epatite C da parte del paziente.
A conforto di tale decisione era intervenuta anche la CTU disposta dal giudice, la quale dava conto dello stato clinico dell’uomo dal 2003 in poi, evidenziando che mai sino all’episodio incriminato era emersa una sintomatologia ricollegabile in qualche modo a tale patologia.
A supporto di ciò. Nonché per escludere l’intervento di fattori alternativi di contagio, il CTU sottolineava altresì che dall’anamnesi del paziente non emergevano ulteriori occasioni di possibile incontro con il virus HCV, in quanto non erano stati consumati rapporti sessuali a rischio, non erano state eseguite manovre diagnostiche e/o terapeutiche in ambito nosocomiale, come cure odontoiatriche o emotrasfusioni, e nemmeno emergevano comportamenti idonei alla contrazione di altra natura, come ad esempio un’eventuale tossicodipendenza endovenosa.
Ne derivava che la presenza dell’epatite C non poteva che ricollegarsi all’unico episodio a rischio, tenuto conto inoltre del dato cronologico che vedeva emergere i primi sintomi nel luglio 2006, quindi compatibilmente con il periodo di incubazione della malattia che varia da 5 a 12 settimane.
Chiarito ciò, il giudice dava quindi atto dell’assenza di prove prodotte dalla parte convenuta al fine di dare contezza del corretto adempimento, onere di prova che spetta al danneggiante, indi per cui era inevitabile il riconoscimento di responsabilità.
Il danno veniva così quantificato: 15% di P.P. e 120 giorni di invalidità temporanea, per un totale, secondo le tabelle del Tribunale di Milano, di euro 41.677,00. Non veniva riconosciuta alcuna somma a titolo di danno patrimoniale, attesa la mancata produzione di documentazione probatoria.
Riflessioni
La vicenda dell’uomo che al linfoma di Hodgkinh ha visto aggiungersi (per un nefasto errore) anche l’epatite C, riporta alla mente come alcune persone abbiano un destino sfortunato che si compie giorno dopo giorno aggiungendo dolore al dolore.
Ma il fato non può rappresentare una via d’uscita comoda per chi, al contrario, dovrebbe garantire che certi episodi non si verifichino, per chi è retribuito per fare in modo che gli episodi più tragici che la sorte vorrebbe imporre non si compiano.
L’errore è sempre dietro l’angolo e nessuno di noi, ciascuno con la propria vita e con il proprio lavoro, può dirsene al riparo. Tuttavia, vi sono errori che qui tra gli esseri umani non possono essere perdonati: si tratta degli errori commessi per superficialità, per distrazione, per imprudenza, errori banali a cui non corrispondono conseguenze gravissime. Una semplice distrazione può condannare una persona ad una vita di dolore fisico, di medicine, di trattamenti terapeutici o, addirittura, può condannarla alla morte.
Forse oggi alcuni non hanno molte possibilità di scegliere il lavoro, di fare ciò che amano e di occuparsi di qualcosa che li appassiona. Forse ci si adegua a quello che si trova.
Ci sono però lavori che non possono esser fatti se alla base non si ha una profonda volontà di mettersi accanto a chi sta male per cercare anche solo per poco di alleviare le sofferenze. Ci sono lavori in cui non ci si può permettere neppure un attimo di distrazione. Questi semplicemente non possono esser svolti da chi non abbia una vera e propria vocazione.
Dovere dell'infermiere e del medico
Si deve rammentare che il personale infermieristico, oltre a rispondere come nel superiore caso per gli errori direttamente ad esso imputabili, risponde altresì per la somministrazione della terapia farmacologica al paziente, che rientra tra i suoi tradizionali compiti.
La Suprema Corte con sentenza sez. IV, 25 ottobre 2000, n. 1878, ha individuato i doveri dei medici e degli infermieri sotto il profilo della farmacologia, ricordando che eventuali sovradosaggi di principio attivo cagionati dal cambiamento del farmaco ad opera dell’infermiere, sono addebitabili esclusivamente a questo, che ne risponderà anche in sede penale.
In altri termini, l’infermiere non potrà sostituire un farmaco con altro equivalente, ad esempio nel caso in cui il primo non sia nella disponibilità della struttura, poiché eventuali reazioni del paziente al diverso farmaco, al principio attivo piuttosto che agli eccipienti, ricadranno soltanto in capo al somministratore.
Tribunale di Firenze, Sez. II, Sentenza 17-03-2015, R.G. 7007/2009
Differenza con Indennizzo l. 210/92
Giova ricordare che il risarcimento di cui si è parlato è una questione diversa dall’indennizzo previsto, per motivi social-assistenziali, dalla legge 210/92 ed erogato dal Ministero della salute.
Sentenza del Tribunale di Roma - Dissequestro Farmaci
Il Tribunale di Roma dà ragione a un malato che aveva acquistato la cura contro l’epatite C in India.
Il rivenditore indiano aveva spedito il farmaco generico dopo aver ricevuto un bonifico da 2.500 euro. Il farmaco, che in Italia costa circa 44mila euro e viene passato dal sistema sanitario solo ai pazienti più gravi, era stato bloccato alla frontiera di Ciampino il 9 giugno scorso.
La decisione dei giudici ha imposto di restituire al paziente quanto sequestrato, con un'ordinanza che forza le regole del commercio dei farmaci, improntate ad uno stretto protezionismo. E potrebbe aprire all'acquisto all'estero da parte di migliaia di pazienti italiani.