Risarcimento per il Contagio Epatite C e Sacche di sangue non Tracciate

L’epatite C è una malattia del fegato, causata da un virus noto come HCV.

La via di trasmissione dell’agente patogeno è quella del contatto diretto con il sangue di persona infetta, mentre la causa più comune di trasmissione è l’utilizzo promiscuo di aghi o siringhe che, normalmente, sarebbero “usa e getta”.

Vi sono, tuttavia, anche altre cause di trasmissione, tra cui la condivisione di spazzolini, forbici o rasoi con persone infette ovvero, per quel che qui interessa, il contatto accidentale con sangue infetto. Tale situazione riguarda, per lo più, le strutture sanitarie e i relativi operatori.

Ebbene, in caso di trasfusione di sangue infetto, è doveroso interrogarsi sui profili di responsabilità delle strutture ospedaliere e dei singoli sanitari.

La responsabilità dell’ospedale per contagio da sangue infetto

Occorre, anzitutto, premettere che il rapporto che si instaura tra il paziente e l’ente ospedaliero ha fonte in un contratto atipico “a prestazioni corrispettive”: su una parte – ovvero il paziente, o l’assicuratore o il SSN - grava infatti l’obbligo di pagamento del corrispettivo, mentre sull’altra – la struttura sanitaria o l’ente ospedaliero – sorge l’obbligo di messa a disposizione del personale e di tutte le attrezzature necessarie.

Ne consegue che la responsabilità della struttura nei confronti del paziente ha natura squisitamente contrattuale e come tale può sorgere in caso di inadempimento delle obbligazioni a carico dell’ente, ai sensi dell’art 1218 c.c., ovvero in caso di inadempimento della prestazione affidata al singolo sanitario, in virtù dell’art 1228 c.c.

Da tali principi di ordine generale deriva che il debitore (e cioè l’ospedale che infetta un paziente) è tenuto al risarcimento del danno, salvo che non provi che l’inadempimento è dipeso da impossibilità della prestazione dovuta a causa a lui non imputabile.

Proprio sull’onere della prova risiede, in effetti, il punto nodale della questione giuridica.

In linea generale, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza, nel caso di contagio per sangue infetto, la prova del nesso causale è ripartita tra il danneggiato e la struttura ospedaliera, nel senso che “il danneggiato deve provare che l’esecuzione della prestazione si è inserita nella serie causale che ha condotto all’evento di danno, mentre grava sulla struttura l’onere di provare di aver agito con diligenza, ad esempio dimostrando che le sacche di sangue utilizzate provenivano dai centri preposti alla fornitura, alla tracciabilità ed al controllo.”

Ciò significa, dunque, che spetta al danneggiato provare l’evento lesivo ed il nesso causale, ossia la relazione eziologica tra la condotta ed il danno.

In altri termini, grava sul paziente la prova di aver contratto l’epatite C e che il contagio è dovuto, almeno in rilevante parte, alla trasfusione di sangue infetto da parte dell’ospedale.

E’ onere, invece, della struttura sanitaria e dei singoli medici provare di aver tenuto un comportamento diligente, dimostrando che il contagio è avvenuto per altre cause.

Ovviamente, l’omissione o insufficienza di controlli sulle sacche di sangue può essere causa sufficiente di responsabilità medica.

Del resto, la Corte di Cassazione ha di recente chiarito che l’attività di trasfusione è, di per sé, connaturata da obiettiva pericolosità,“sicché, l’inosservanza della normativa esistente, del protocollo, delle linee guida e delle legesartis emananti allo scopo di evitare i rischi specifici, configura grave inadempimento contrattuale del medico per condotta commissiva ed omissiva, imputabile anche alla struttura sanitaria ex art 1228 c.c.”  (Cass., sez. VI 29 marzo 2018 n. 7814).

Il principio di diritto che ne discende è che, dunque, la struttura sanitaria si esonera da responsabilità solo nel caso in cui dimostri di aver rispettato tutte le cautele idonee ad impedire l’evento.

Ciò, secondo la giurisprudenza, ha luogo anche laddove la struttura ospedaliera, inserita nella rete del servizio sanitario nazionale, abbia utilizzato sacche di sangue provenienti dal servizio di immunoematologia trasfusionale della USL, preventivamente sottoposte ai controlli richiesti dalla normativa dell’epoca.

Nel caso di specie, peraltro, la Corte di Cassazione riteneva sussistere responsabilità contrattuale della struttura sanitaria che, in un caso di contagio da virus HCV, aveva omesso ogni controllo sulla tracciabilità delle sacche di sangue (si veda, sul punto, ancora Cass., sez. VI, 29 marzo 2018 n. 7814).

Risarcimento da parte del Ministero della Salute

Ad ulteriore chiarimento di quanto sopra precisato, giova fare riferimento ad un caso specifico, su cui si è pronunciata la Suprema Corte di Cassazione in tempi recentissimi: A. P., affetto da virus HBV in conseguenza di una trasfusione di sangue infetto somministratagli nel 1982 presso la un Azienda Sanitaria Locale, ricorreva per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello che, in parziale riforma della sentenza di primo grado, accoglieva l’appello del Ministero della Salute.

Il Sig. P. fondava il ricorso su un unico motivo: la sentenza d’appello aveva di fatto invertito l’onere della prova, ponendo a carico del danneggiato, oltre che la prova del fatto e del nesso causale, anche la prova dellacolpevolezza della struttura.

Infatti, secondo la Corte d’Appello, l’attore si sarebbe limitato “ad ipotizzare la provenienza del sangue da sacche ignote ma risultando, invece,dall’esame della cartella clinica esaminata dal CTU la mancata annotazione del referto di accompagnamento del Centro Emotrasfusionale, non potendo la stessa equivalere a provadell’ignota provenienza del sangue, era dunque mancata la prova dell’omessa diligenzadell’azienda sanitaria.”

Né, secondo il Giudice di merito, poteva ritenersi incombere sull’ente ospedaliero ovvero sugli operatori sanitari la prova di aver fornito sacche di sangue sano poiché, “all’epoca in cui si svolseroi fatti, l’uso di sangue infetto non era imputabile alla struttura ospedaliera ove il materialeorganico provenisse da centri autorizzati”.

In conclusione, per i giudici di merito, il danneggiato era venuto meno all’onere di provare la violazione dei doveri di diligenza da parte della struttura.

In realtà, come si anticipava, la giurisprudenza di legittimità cassa con rinvio tale decisione (e cioè ribalta tutto), rilevando come un’inversione dell’onere della prova è del tutto illegittima, violando i principi basilari della responsabilità contrattuale ex art 1218 c.c., secondo cui il debitore (l'ospedale e quindi, se pubblico, il Ministero della Salute) è sempre tenuto al risarcimento del danno, a meno che non provi che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità dellaprestazione derivante da causa a lui non imputabile.

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In altri termini, secondo l’orientamento giurisprudenziale ad oggi consolidato, il paziente/danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o contatto sociale), nonché l’insorgenza o l’aggravamento della patologia, allegando altresì l’inadempimento del debitoreastrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.


Rimane, invece, a carico del debitore la prova liberatoria che l’inadempimento non c’è stato ovvero che, pur esistendo, è di modesta entità (tale da risultare eziologicamente irrilevante).

Si vedano, sul punto, diverse pronunce della Corte di Cassazione: Cass., S.U., n. 577 dell’11/1/2008; Cass., 3, n. 20101 del18/9/2009; Cass., 3, n. 1538 del 26/1/2010; Cass., 3, 15993 del 21/7/2011; Cass., 3, n. 20904 del12/9/2013; n. 820 del 20/1/2015, Cass., 3, n. 24073 del 13/10/2017.

Peraltro, mentre il danneggiato può provare la relazione causale tra la condotta ed il danno anche per mezzo di presunzioni, invece il danneggiante deve fornire la prova specifica della causa non imputabile, nonché dell’assenza di colpa.

Ed infatti, sempre in tempi molto recenti, la Corte di Cassazione ha ribadito il seguente principio di diritto: “ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento dellaprestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiatoprovare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazionepatologica, o l’insorgenza di nuove patologie, e la condotta del sanitario, mentre è onere della partedebitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, che una causaimprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione”. (Cass. civ. Sez. III, Sent. 11.11.2019, n. 28991).

Tornando al caso di specie, la Suprema Corte, facendo una corretta applicazione dei principi che si sono sin qui illustrati, concludeva che “l’impossibilità di tracciare una sacca disangue trasfusa comporta un’irregolarità nella tenuta della cartella clinica cui puòricollegarsi l’affermazione di responsabilità contrattuale - con riguardo alla prova presuntiva”. (Corte di cassazione civile, sez. III, 17 gennaio 2020, n. 852)

Analisi della cartella clinica in caso di Epatite c

In conclusione, sia la giurisprudenza di legittimità che di merito sembrano allineate nel sostenere che sussiste una relazione diretta tra la trasfusione di sangue ed il contagio da epatite C, ogni qual volta la cartella clinica del paziente non lasci pensare che l’infezione fosse stata già contratta in data antecedente.

Anzi, per ritenere sussistente il nesso causale è spesso sufficiente la mera cartella clinica del danneggiato ove attesti, da un lato, l’intervento di emotrasfusioni (astrattamente idonee a produrre il danno da contagio) e, dall’altro, l’assenza di una qualsiasi analisi preventiva sul sangue utilizzato.

Proprio la mancanza di fattori alternativi idonei a produrre l’evento, lascia pensare che il nesso di causalità tra il contagio da virus HCV e le emotrasfusioni possa provarsi attraverso presunzioni.

Ciò, anche laddove il virus dovesse presentarsi in epoca di molto successiva a quella in cui il paziente aveva subito le trasfusioni (in ragione del fatto che si tratta di malattie notoriamente a lungo latenza).

Ovviamente, resta ferma la facoltà per la struttura di fornire la prova contraria, dimostrando che l’inadempimento è dovuto ad impossibilità della prestazione per causa indipendente dalla sua volontà.