Avvocato Risarcimento Operazione Prostata
Nel corso di un intervento chirurgico alla prostata, il medico che occupa la posizione apicale riveste una posizione di garanzia che lo obbliga a controllare l’operato del personale sanitario e parasanitario che lo assiste nel corso dell’operazione, non potendo addurre quale giustificazione per gli errori altrui il fatto che questi sono il frutto di una manovra delegata al personale di sala operatoria e non al chirurgo.
Qualora dalla negligenza, imprudenza o imperizia del medico derivino delle lesioni gravi al paziente, questi potrà essere chiamato a risponderne penalmente, rischiando la pena di cui all’art. 583 c.p., da tre a sette anni di reclusione in caso di lesione grave e da sei a dodici anni in caso di lesione gravissima, oltre al risarcimento del danno che nel caso di specie è stato quantificato in circa 130 mila euro.
Sempre più di frequente, per non dire in ogni caso, al giorno d’oggi gli interventi chirurgici non rappresentano il lavoro di una singola persona che svolge l’attività professionale che le è richiesta, ma sono il frutto di un lavoro di squadra in cui ciascuno ha i suoi compiti. Il lavoro di tutti consentirà di mettere insieme i tasselli e di raggiungere insieme il risultato finale.
Si tratta di un meccanismo che, fortunatamente, consente di rendere ancor più strette le maglie della rete attraverso cui l’errore si può insinuare e, di conseguenza, permette al paziente di affrontare più serenamente l’operazione chirurgica che, per quanto di routine, non può mai presentare un rischio pari a zero.
L’idea di metterci nelle mani di una squadra di persone competenti ci tranquillizza, poiché, anche laddove vi dovesse essere un imprevisto, sappiamo che insieme quei professionisti sapranno gestire l’emergenza e superarla.
Certo, la presenza in sala operatoria di più persone a volte dà luogo a situazioni che per il paziente non avvezzo a frequentare certi luoghi potrebbero essere inquietanti, specie se l’intervento avviene in anestesia locale: basti pensare a quelle persone operate che nel frattempo ascoltano i programmi del chirurgo per la serata o dissertazioni sul calcio o sull’ultimo modello di un’autovettura, o ancora assistono a flirt tra il personale sanitario e parasanitario.
Nulla di strano, finchè giunge l’intervento in cui qualcosa va storto. Emerge quindi che il paziente ha ascoltato delle frasi dette dal chirurgo durante l’operazione e diviene testimone dell’errore eseguito sul suo stesso corpo.
Come accaduto nel reparto di urologia del presidio ospedaliero “Padre Pio da Pietralcina” di Campi Salentina il 21/09/2000. Quel giorno si svolgeva un intervento chirurgico di resezione prostatica eseguito in anestesia epiduralica, che lasciava il paziente con una grave ustione da contatto a stampo faccia laterale e mediale del collo piede sinistro, causata dall’erroneo posizionamento della piastra del bisturi elettronico.
Il paziente, in stato cosciente vista l’anestesia epidurale, ascoltava in quell’occasione il chirurgo chiedere ripetutamente all’addetto della macchina di aumentare il voltaggio della stessa perché il bisturi non funzionava, tanto da far percepire all’uomo forti dolori alla caviglia sinistra nonostante l’anestesia, in quanto, a causa dell’errato posizionamento della placca neutra, si era verificata una dispersione di corrente con conseguente grave ustione della caviglia sinistra del paziente.
I danni che ne sono derivati sono stati oggetto di un processo incardinato dal paziente dinanzi al Tribunale di Lecce – sezione distaccata di Campi Salentina.
Azione di risarcimento per Ustione - Prostata
Con atto di citazione il paziente conveniva in giudizio il medico chirurgo responsabile dell’intervento, nonché la ASL LE/1, al fine di vederli condannare al ristoro dei patimenti subiti, sia in termini di danni patrimoniali che di danni non patrimoniali. Al giudizio si univa successivamente la S. Assicurazioni Spa, chiamata in causa dalla ASL per malleva in caso di riconoscimento di una responsabilità.
Durante il giudizio di primo grado veniva espletata la CTU, la quale confermava la tesi attorea secondo cui le lesioni denunciate andavano direttamente ricondotte alle omissioni colpose e alla grave imperizia del medico convenuto, con conseguente riconoscimento di responsabilità contrattuale anche in capo alla ASL, dovendo la struttura sanitaria rispondere in virtù dell’inadempimento del contratto atipico di spedalità stipulato con il paziente, nonché ai sensi dell’art. 1228 c.c., il quale prevede che il debitore che si avvalga nello svolgimento della prestazione dell’opera di terzi risponda per i danni da questi cagionati.
In definitiva, all’esito del giudizio di primo grado venivano riconosciuti all’attore danneggiato i seguenti importi a titolo risarcitorio: euro 11.361,87 per inabilità temporanea, euro 65.170,79 per danno biologico permanente ed euro 4.131,66 per spese mediche.
Le superiori somme erano calcolate sulla scorta del fatto che la grave ustione al collo del piede sinistro aveva causato all’uomo un’inabilità al 100% per 180 giorni, al 50% per 30 giorni e al 25% per ulteriori 30 giorni, con un danno biologico permanente quantificato dalla CTU al 25%.
Avverso tale sentenza proponeva appello il medico e, conseguentemente a tale impugnazione, si costituivano le altre parti, proponendo a loro volta appello incidentale, ossia impugnano a loro volta la sentenza di primo grado.
Appello dei medici dell'operazione
In primo luogo, l’appellante principale, ossia il medico chirurgo, deduceva l’erroneità del provvedimento impugnato in quanto, a suo avviso, il giudice di prime cure aveva trascurato che il danno biologico sofferto dal paziente era almeno per metà addebitabile alle sue pregresse patologie, trattandosi di soggetto diabetico, iperteso da molti anni e affetto da arteriopatia ostruttiva degli arti inferiori, stato questo che aveva notevolmente rallentato e reso più complicato il recupero dall’ustione.
Ulteriore motivo di impugnazione del medico, condiviso e sostenuto anche dalla Asl e dalla S. Assicurazione Spa, concerneva anche un’altra deduzione errata del Tribunale di Lecce. E infatti, secondo le tesi dei convenuti, la responsabilità del chirurgo appellante andava esclusa in quanto egli aveva correttamente scelto di sottoporre il paziente ad intervento per via endoscopica ed eseguito correttamente l’operazione con la diligenza e la perizia tecnica.
Si evidenziava altresì che i danni subiti erano riferibili al cattivo stato dell’elettrodo e al non corretto posizionamento dello stesso, compito questo affidato al personale di sala operatoria e non al medico chirurgo, il quale non avrebbe potuto occuparsi anche delle mansioni affidate al ferrista o infermiere professionale.
Diversamente il paziente, già vittorioso in primo grado, proponeva appello incidentale chiedendo la liquidazione di maggiori somme a titolo risarcitorio del danno patrimoniale e non patrimoniale subito.
A suo avviso invero era stata erroneamente rigettata la domanda di risarcimento degli esborsi sopportati per gli spostamenti da Squinzano a Brindisi, per tre giorni a settimana dal 2001 al 2010, nonché la domanda relativa alle spese sostenute per il consulente di parte; osservava altresì che non era stato tenuto conto in sede di quantificazione del danno del lucro cessante derivante dall’impossibilità futura di effettuare personalmente piccoli lavoro domestici e, infine, che avrebbero dovuto utilizzarsi le tabelle del Tribunale di Milano (riferimento a livello nazionale per i risarcimenti del danno biologico) e non quelle del Tribunale di Lecce.
Sentenza del giudice: colpa omissiva
Anche la Corte d’appello di Lecce ha ritenuto meritevoli di accoglimento le argomentazioni del danneggiato, confutando al contrario quanto sostenuto dagli appellanti.
La Corte ha infatti condiviso quanto già affermato dal giudice di primo grado, il quale aveva già ravvisato una responsabilità per colpa omissiva del dottore che aveva proceduto all’intervento e che rivestiva una posizione di vertice nell’ambito dell’equipe. Egli avrebbe dovuto invero controllare l’operato del personale sanitario e parasanitario che lo assisteva, ancor più in virtù della sua posizione apicale di primario che rendeva da lui esigibile un controllo analitico del predetto personale.
In particolare, si è evidenziata la sussistenza in capo al chirurgo primario di un dovere di vigilanza sull’attività del personale presente all’intervento, quantomeno procurandosi informazioni precise sulle iniziative intraprese dagli altri sanitari, con riguardo a possibili, e non del tutto imprevedibili, eventi che potevano intervenire.
Va precisato che nello specifico l’ustione era stata causata dall’erronea applicazione della placca dell’elettrodo neutro del bisturi, che, cagionando una dispersione di corrente nel circuito, aveva provocato la suddetta ustione.
Come affermato in primo grado e ribadito in secondo grado, era dovere del medico accertarsi della corretta applicazione della placca, del suo adeguato fissaggio e dell’eventuale usura della stessa.
Sotto il profilo giuridico la Corte ha osservato che in tali situazioni opera senz’altro un principio di affidamento, secondo il quale ogni compartecipe si concentra sul proprio operato e sul proprio compito confidando che gli altri facciano lo stesso al fine di ottenere un fausto risultato finale. Tuttavia, detto principio non può non essere contemperato con l’obbligo di garanzia verso il paziente che è a carico del sanitario e del resto del personale; tale principio, viceversa, impedisce di disinteressarsi completamente dell’operato altrui, confidando nella corretta esecuzione.
Il superiore obbligo di garanzia funge quindi da limite al principio dell’affidamento, che non può essere invocato da chi, in virtù della sua particolare posizione, ha l’obbligo di controllare e valutare l’operato altrui.
Sulla scorta di tali considerazioni, è stata ribadita la responsabilità del medico primario, la cui consapevolezza in merito al mal funzionamento dell’elettrobisturi è stata dimostrata dalla testimonianza dello stesso paziente, il quale ha riferito di aver sentito il medico più volte chiedere al personale di aumentare il voltaggio perché il bisturi non funzionava. Nonostante questo, egli non si è mai preoccupato di assicurarsi della corretta collocazione della placca neutra.
Di nessun rilievo è stata poi ritenuta l’ulteriore censura diretta all’ottenimento di una riduzione del risarcimento in ragione del fatto che il danno sarebbe stato in parte aggravato dalle pregresse condizioni del paziente.
I giudici del secondo grado hanno rilevato come l’intera equipe, e in particolare il chirurgo, fossero già a conoscenza di tali pregresse patologie; tant’è che la decisione di procedere con un intervento per via endoscopica era stata presa proprio alla luce dei rischi che una diversa operazione avrebbe comportato in virtù delle condizioni dell’uomo.
Il superiore rilievo, unitamente all’esclusione da parte della Corte del nesso eziologico tra le patologie precedenti e il danno occorso, ha condotto al rigetto anche di tale motivo di impugnazione.
Dopo aver respinto tutti le argomentazioni degli appellanti, i Giudici hanno parzialmente accolto le richieste del danneggiato, riconoscendo una somma ulteriore per le spese di viaggio sostenute al fine di recarsi in ospedale per le terapie, nonché per le spese di ctp, il tutto da liquidarsi secondo le tabelle di Milano.
In definitiva, all’esito del giudizio di secondo grado, il danno è stato riquantificato in euro 131.536,15, la cui liquidazione è stata posta a carico dell’assicurazione.
Orientamenti giurisprudenziali
Le omissioni colpevoli del medico che portano ad un risarcimento del danno sono una moltitudine che negli ultimi anni sta crescendo a livelli esponenziali.
A ciò si sta aggiungendo anche un recente orientamento giurisprudenziale che ha iniziato a ravvisare una responsabilità omissiva anche in capo all’infermiere che ometta di segnalare al medico l’errore commesso nella prescrizione.
Così è stato deciso dalla IV sezione penale della Corte di Cassazione con sentenza del 16 gennaio 2015, n. 2192, che ha condannato per la morte di una paziente allergica, avvenuta in seguito all’assunzione di un farmaco che ingenerato la reazione, anche l’infermiere.
Questi in particolare è stato ritenuto corresponsabile del decesso per non aver segnalato al medico l’errore di prescrizione di un farmaco contenente un principio attivo che sapeva essere dannoso per il paziente, attesa la sua allergia all’amoxicillina. La Corte ha chiarito che l’infermiere ha un preciso obbligo di collaborazione con il medico, dovendo intervenire, ovviamente non per suggerire la terapia corretta, ma per evitare errori di svista che potrebbero cagionare eventi irreversibili.
La sentenza: Corte d’appello di Lecce, Sez. seconda civile, Sentenza 01/07/2015, R.G. 1056/2011